Arianna, la bambina di legno: 16 anni senza un risarcimento. E ora arriva la maxi-cartella del fisco

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Tetraplegica per un errore medico, da anni attende giustizia. Il governatore De Luca aveva promesso che i 3 milioni di euro stavano per essere sbloccati. Ora l’ultima beffa.

Totale: 81.544 euro. Quando si è trovato tra le mani la cartella dell’Agenzia delle Entrate che gli chiedeva di pagare quella somma per lui spropositata di «Imposta principale di registro e accessori» sulla sentenza di primo grado che aveva condannato non lui ma l’ospedale Cardarelli di Napoli a risarcire sua figlia Arianna per un gravissimo errore medico che l’aveva condannata a una totale disabilità, Eugenio Manzo non ci voleva credere: «Ma chi li ha mai visti tutti questi soldi in vita mia?». Direte: ma non l’abbiamo già letta tre giorni fa questa storia sul Corriere?

No. Quella riguardava Luigia Di Giorgio, di Margherita di Savoia, vicino a Barletta, alla quale era stato chiesto (così come al padre Donato Di Giorgio e alla madre Raffaella, lei pure colpita da una malattia neurologica degenerativa e oggi invalida totale) di anticipare 10.445 euro. Questa, come dicevamo, riguarda Arianna Manzo. Le vicende però sono davvero parallele. La prima cominciò nel 2004, questa nel 2005. Ed è vero che il Corriere ne ha parlato più volte. Anzi, a suo tempo fu il primo a denunciarne l’esistenza. Seguito da un servizio, tra gli altri, de Le Iene che mostrò la ragazza, i genitori, il modesto appartamento di Cava de’ Tirreni in cui viveva prigioniera delle barriere architettoniche («Praticamente è tutto così complicato che Arianna da fine agosto non esce più di casa e non uscirà fino alla prossima primavera», sospira oggi la mamma Matilde) e cavò la pelle ai responsabili.

 

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Ricordate la trama di questa brutta storia? Arianna, via via diventata per tutti «la bambina di legno», è una bella bambina sana senza problemi, come testimonieranno i pediatri, quando a due mesi e mezzo viene colpita da una bronchiolite acuta. Portata all’ospedale di Cava de’ Tirreni viene presto trasferita in ambulanza al Cardarelli di Napoli, il più grande ospedale del Sud. Lo smistamento, racconterà il suo avvocato Mario Cicchetti, «avviene a bordo dell’autoambulanza, in braccio alla madre, con il medico collocato nella cabina dell’autista e quindi impossibilitato a monitorare, in tempo reale, le sue condizioni cliniche. In spregio ad ogni linea guida vigente all’epoca, come ora». Ricoverano Arianna in terapia intensiva pediatrica, le diagnosticano una «broncopolmonite stafilococcica». Il giorno dopo, accusano l’avvocato e i genitori, «i medici decidono di usare il “tiopental sodico” che nelle dosi giuste può andare anche bene per indurre un’anestesia, ma non può essere utilizzato per due settimane consecutive in terapia intensiva pediatrica, come spiegano le linee guida fissate già nel 1981, cioè ventisei anni prima, per il documentato tasso di complicanze individuabili nell’incidenza delle sequele neurologiche».

Tesi ribadita due settimane fa anche nella perizia tecnica disposta dalla Corte d’appello di Salerno. Certo è che quando la piccola torna a casa ha ormai problemi enormi con un «danno irreversibile al sistema nervoso centrale». «Quando è uscita da questo ospedale stava bene», dirà la direzione del Cardarelli a Veronica Ruggeri de Le Iene, «Secondo noi è solo successivamente diventata tetraplegica». E questa linea difensiva, che scarica eventuali responsabilità su chissà chi, va avanti per anni finché il 26 novembre 2019 arriva finalmente la sentenza di primo grado. Che «dichiarata la responsabilità dei sanitari del Cardarelli che ebbero in cura la minore Arianna Manzo in relazione ai postumi dalla stessa riportati, causalmente riconducibili alla condotta dei medesimi, condanna l’Azienda ospedaliera di rilievo nazionale “A. Cardarelli” di Napoli» a pagare un totale di circa 3 milioni di euro. Pagamento che, in questi casi, dovrebbe essere effettuato immediatamente. Macché.

L’azienda decide di fare ricorso in Appello. Ma non si accontenta solo di questo. Il Cardarelli chiede anche che l’ordine esecutivo di pagare il dovuto, che consentirebbe a Eugenio e Matilde Manzo (900 euro di paga lei, 500 di «accompagnamento» lui che ha dovuto lasciare il lavoro per seguire la figlia) di comperare o almeno prendere in affitto subito una casa decente senza scalini d’ingresso, senza barriere architettoniche e con un bagno per disabili, tutti «lussi» che non si sono mai potuti permettere, venga sospeso. Gli avvocati dell’ospedale partenopeo sono in ansia: e se i genitori della «bambina di legno» dovessero spenderli, quei soldi? I giudici dell’Appello si riservano di decidere. E per sette mesi pensano e ripensano, pensano e ripensano per poi decidere, il 13 luglio del 2020: sospensione del pagamento. E scrivono testualmente: «Ove si desse luogo alla esecuzione della condanna emessa in primo grado sulla base di un titolo di cui si prospetta la necessità di una meditata verifica in questo grado di giudizio, la parte obbligata si vedrebbe esposta all’evenienza di dover subire un esborso di rilevante entità con il rischio di non poterlo recuperare in caso di esito favorevole del giudizio».

Ma come: hanno il dubbio che i due poveretti che da anni si fanno carico di quella figlia disabile possano impazzire e scappare a Las Vegas, comprarsi una Rolls Royce e giocarsi tutto al casinò? In ogni caso: fermo restando che i giuristi consultati affermano in coro che l’ordine di pagare va subito rispettato, non era già scontato che quel risarcimento sarebbe finito a un giudice tutelare in grado di garantire sia l’ospedale sia la ragazzina disabile? Due anni sono già passati, dalla sentenza: due anni. E non ha portato a nulla, ancora, neppure l’offerta di Vincenzo De Luca (che alle prime tre lettere dei genitori manco rispose) di trovare una mediazione. Promessa, dimenticata e ri-promessa quattro giorni fa parallelamente al rinvio alla prossima udienza dell’Appello al 13 gennaio. Appuntamento il 23 novembre. La mamma di Arianna, però, non ne può più: «Se dopo sedici anni dalla nostra sciagura pensano di trovarci come al mercato a parlare di mele e di pere possiamo pure restarcene a casa».

Fonte: Corriere